La professoressa Perotti da sempre impegnata nel sociale e nell'insegnamento nei confronti dei giovani e delle famiglie, presenta la sua ribrica su Hannah Arendt



A cura di Giancarla Perotti



Redazione

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IL mio lavoro è la teoria politica. Io non mi sento in alcun modo una filosofa e non penso di essere accettata nel circolo dei filosofi”.
Hannah Arendt, infatti non si stancò mai di ripetere che il suo lavoro non era quello di filosofa ma di teorica della politica, lo affermò anche il 28 ottobre 1964 nel programma televisivo Zur Person, condotto da Günter Gaus. In quell’occasione la Arendt insiste sulla sua dichiarazione spiegando che la filosofia politica è figlia di una tradizione e, per sua stessa natura, è in tensione con la politica. La teoria politica, invece, permette di analizzare la politica senza avere gli occhi offuscati dalla tradizione filosofica.

Hannah Arendt nacque nel 1906 da una famiglia ebrea a Linden, l’attuale distretto del comune di Hannover. All’età di tre anni, a causa della salute del padre, la famiglia si trasferì a Königsberg, a quei tempi capitale della Prussia Orientale e città natale di Immanuel Kant da lei molto apprezzato. Il padre, Paul Arendt, da giovane contrasse la sifilide, quando nacque la figlia sembrava che la malattia fosse regredita invece morì quando Hannah aveva sette anni. Crebbe in una famiglia progressista, con la madre che era un’ardente socialdemocratica. Completati gli studi di istruzione secondaria a Berlino. All’Università di Marburgo seguì Martin Heidegger. Ebbe con lui una relazione sentimentale durata quattro anni che fu tenuta segreta. A causa dell’adesione di Heidegger al nazismo, durante il periodo del Terzo Reich, la pensatrice si allontanò completamente e successivamente criticò aspramente le sue scelte politiche. Arendt non riuscì tuttavia, mai del tutto, a cancellare l'amore e la devozione verso il suo primo maestro.

Nonostante ciò, alcuni elementi della filosofia di Heidegger hanno avuto un impatto duraturo sul pensiero di Arendt. Ad esempio, il concetto di esistenza autentica, la riflessione sull'esperienza umana e sulla natura dell'esistenza sono argomenti che hanno influenzato il lavoro della filosofa anche se in modo critico e selettivo.

Arendt, nel corso della sua carriera filosofica, ha sviluppato idee e concetti distinti dai principi heideggeriani, ma la sua interazione e la sua esperienza con Heidegger hanno sicuramente avuto un impatto sul suo pensiero. Comunque la sua visione e la sua critica al nazionalsocialismo hanno definitivamente segnato un distacco netto dalle idee politiche del suo ex-mentore. Dopo aver chiuso questa relazione, Hannah Arendt si trasferì all'Università di Heidelberg, dove si laureò nel 1929 con una dissertazione sul concetto di Amore in Sant'Agostino, sotto la supervisione del filosofo esistenzialista Karl Jaspers. Nel 1933, quando Adolf Hitler prese il potere in Germania, non le fu permesso di ottenere l’abilitazione per l’insegnamento universitario in Germania, per via delle discriminazioni razziste antisemite del nuovo regime. Nello stesso anno fu arrestata, e subito imprigionata, dalla Gestapo, per aver condotto ricerche, considerate illegali, sull'antisemitismo. Nel 1929 sposò il filosofo Günther Anders, da cui si separò nel 1937. Appena uscita dal carcere, nel 1933 lasciò la Germania per vivere prima in Cecoslovacchia e poi in Svizzera. Si stabilì successivamente a Parigi, dove conobbe il critico letterario marxista Walter Benjamin. In Francia, Hannah Arendt si adoperò per aiutare gli esuli ebrei, fuggiti dalla Germania nazista, a emigrare nel Mandato Britannico della Palestina. Nel 1937 fu privata della cittadinanza tedesca, quando la Germania invase la Francia, Arendt fu detenuta dai francesi come apolide illegale. Nel 1940 sposò il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con cui nel 1941 scappò, assieme alla suocera, negli Stati Uniti d'America. Divenne attivista nella comunità ebraica tedesca di New York, città che da allora rimase la sua principale residenza per il resto della vita, e scrisse per il periodico in lingua tedesca Aufbau. Acquisì la cittadinanza americana nel 1950.

Tra il 1960 e il 1962 seguì il processo del criminale nazista che coordinò lo sterminio degli ebrei d'Europa, Adolf Eichmann, il piano genocida intrapreso dal Regime hitleriano e scrive nel 1961 il celeberrimo reportage: Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male.

Morì il 4 dicembre 1975 in seguito a un attacco cardiaco e, dopo la cremazione al Ferncliff Cemetery di Hartsdale, le sue ceneri furono sepolte accanto a quelle del marito Heinrich Blücher al cimitero del Bard College, ad Annandale-on-Hudson, New York.

Il saggio La banalità del male di Arendt fu subito al centro di numerose controversie. Molti circoli ebraici presenti in America le diedero battaglia tra polemiche e accuse. Tanti cercarono di dimostrare la falsità e le contraddizioni delle sue affermazioni. Fu una vera e propria guerra mediatica nei confronti dell’autrice che si protrasse per più di tre anni. In particolare ciò che irritò molto l’opinione pubblica, e suscitò tante polemiche, riguardava il ritratto di Adolf Eichmann, che la Arendt indicava come un uomo banale e senza idee, un assassino burocratico.

Il concetto della banalità del male è stato introdotto dalla filosofa Hannah Arendt nel suo libro "Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil" (Eichmann a Gerusalemme: rapporto sulla banalità del male). Nel testo Arendt ha analizzato il processo e il caso di Adolf Eichmann, un ufficiale nazista coinvolto nell'organizzazione e nell'esecuzione dell'Olocausto.

La banalità del male si riferisce all'idea che persone apparentemente normali, come Eichmann, possono essere coinvolte in azioni malvagie o mostrare comportamenti terribili senza essere necessariamente motivati da un odio o da una malvagità estrema. La scrittrice ha sostenuto che il comportamento di Eichmann fosse caratterizzato più dalla mancanza di pensiero critico e dalla capacità di riflessione che dalla pura cattiveria. Eichmann sembrava seguire gli ordini senza fare domande morali o riflettere sulle conseguenze umane delle sue azioni.

La teorica della politica ha sottolineato la natura ordinaria di Eichmann, evidenziando come fosse un individuo comune che si conformava acriticamente alle istruzioni date senza esaminarle e senza assumersi la responsabilità morale delle sue azioni. Questo concetto ha portato a una riflessione più ampia su come l'assenza di pensiero critico e la mancanza di responsabilità individuale possano contribuire a terribili atrocità e ingiustizie nella storia umana.

Il criminale nazista Eichmann che aveva organizzato la deportazione degli ebrei, fu rintracciato in Argentina da agenti israeliani e condannato a morte nel 31 maggio del 1962 e Arendt ne riporto il resoconto e diverse considerazioni nel libro uscito nel 1963 intitolato appunto "La banalità del male". Hannah Arendt afferma nel suo libro che riflettere sulle cose, avere la capacità di giudizio sulle implicazioni morali può evitare le azioni malvagie di chi invece si limita a obbedire ciecamente agli ordini. La banalità del male sta nel fatto che i burocrati del Reich erano in realtà tutte persone terribilmente normali che erano però capaci di mostruose atrocità per il semplice fatto che non si fermavano a riflettere sugli ordini a loro dati. Il loro pensiero restava limitato alle leggi di Hitler che venivano rispettate incondizionatamente. In particolare questi tipi di criminali commettono le loro malvagità in circostanze nelle quali non si accorgono che agiscono male ragione per cui la Arendt ne La banalità del male si chiede se il male deve necessariamente essere radicato in qualcosa di più profondo. Alla luce di ciò l’autrice afferma che una ben radicata morale e un sistema di valori etico non bastano a fermare il male poiché con il nazismo si è visto empiricamente che la morale e i propri valori possono essere facilmente ribaltati dalla società contemporanea. Tuttavia ci sono delle persone che hanno rifiutato l’ideologia nazista e non perché avevano avuto un forte senso del bene e del male, ma perché si chiesero fino a che punto la loro coscienza avrebbe fatto e sopportato tutto quel male e si sarebbero sentiti in pace con se stessi.

Come Eichmann ce ne potrebbero essere altri milioni: il nazismo infatti non incarna il male in sé, ma il fatto di aver condotto uomini banali, a compiere del male atroce.

Il saggio affronta quella che Hannah Arendt, ne La banalità del male, chiama la lezione di Gerusalemme, cioè la strana interconnessione tra banalità e male che a suo parere emerse come fatto decisivo durante il processo Eichmann. In Eichmann la quotidiana normalità del funzionario si mostrò alla Arendt come la dinamica alla quale ricondurre il male radicale storicamente attuato dal nazionalsocialismo. Nel saggio la lezione diventa l’impostazione di una ricerca filosofico giuridica. Il fine è quello di elaborare sul piano del rapporto tra Costituzionalismo e ideologia totalitaria quanto sottolineato dalla Arendt: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.

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