La professoressa Perotti, è presidente del Centro Ricerche Personaliste Raissa e Jacques Maritain. Oggi, 26 novembre, presenta la sua seconda uscita della medesima rubrica  



I caratteri del dialogo

Per chiarire a quali condizioni il dialogo possa essere considerato autentico, occorre evidenziare che, al di là degli ambiti in cui si può applicare, esso è contrassegnato da alcuni caratteri, che ne rinnovano profondamente l’immagine. È quindi necessario puntualizzare i caratteri che consideriamo propri del dialogo interpersonale, interculturale e religioso che sia.

Secondo il pensiero del filosofo Giancarlo Galeazzi espresso all’interno del convegno Filosofia e contemplazione in Raïssa e Jacques Maritain tenutosi a Roma il 25 febbraio del 2011, presso la Facoltà di Filosofia del Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo, il dialogo si sviluppa in quattro momenti: di ascolto, di parola, di ricerca e di testimonianza. Tali momenti si collocano in un orizzonte esperienziale, in quanto il dialogo parte da un’esperienza che è vissuta e che viene problematizzata, per cui esso nasce da un problema teoretico, esistenziale o culturale e coinvolge quanti sono interessati alla sua soluzione: e questo avviene con il supporto dei dialoganti che con spirito simpatetico cioè conforme allo spirito della persona, si collocano su un piano di pariteticità e di differenziazione, e insieme collaborano a dare risposta all’interrogativo che ha motivato il dialogo. Analizziamo sinteticamente le quattro tipicità del dialogo.

In primo luogo il dialogo è obbedienziale, termine teologico di scuola tomista, speculativamente rivisitato, proposto come chiave di volta del rapporto tra fede e ragione. È obbedienziale e in un duplice senso, in quanto è ascolto e in quanto è comprensione dell’altro. Infatti, si tratta di un ascolto che non significa solamente far parlare l’altro, ma accoglierlo e capirlo cioè saper accettare l’altro per quello che è, sapersi mettere nei suoi panni. L’ascoltare per comprendere significa prestare attenzione all’altro e capirlo nella sua diversità: con la consapevolezza che tale diversità sarà tanto maggiore quanto più differente sarà la sua cultura: sia in senso individuale, sia soprattutto in senso sociale. Quindi, il dialogo, prima ancora che interlocutori, chiede interuditori: persone che si ascoltano, che si vogliono ascoltare, che si sanno ascoltare.

Secondo carattere: il dialogo è interlocutorio, in quanto è caratterizzato da interlocuzione e da interlocutorietà. È interlocuzione, cioè è parlare, e parlare per farsi capire, ma è anche un parlare che non pretende d’essere conclusivo, definitivo quindi, è interlocutorio, aperto. È una modalità di intervenire senza la presunzione di mettere a tacere l’altro, senza la pretesa di esaurire l’argomento e ci si spende per fornirgli elementi di conoscenza. La dignità e la diversità delle persone appaiono così ulteriormente rispettate. Quindi bisogna interloquire senza arroganza e senza alterigia. Quando il dialogo non ha questo carattere interlocutorio è solo apparentemente dialogo, in realtà è soltanto una somma di monologhi: magari logici ma non interagenti.

In terzo luogo, il dialogo è responsoriale perché include risposte e responsabilità. Infatti, il dialogo, per un verso, punta a ottenere risposte, cioè a risolvere questioni che comunque, come già espresso, rimangono aperte. I dialoganti non solo cercano risposte, ma si assumono anche la responsabilità di quanto sostengono e provvisoriamente risolvono, per cui il loro parlare tiene conto delle conseguenze di ciò che affermano. Il rispondere esprime comunque un atteggiamento che è legato ancora una volta al riconoscimento della dignità della persona che interpella e che esige un impegno commisurato alla specificità individuale e relazionale dell’altro. Quando il dialogo non ha carattere responsoriale, è solo apparentemente dialogo, in quanto si esaurisce in un conversare inconcludente o in una chiacchiera dispersiva.

Siamo al quarto e ultimo carattere: il dialogo è testimoniale, in quanto è comportamentale e coerente, cioè per un verso si esprime anche con comportamenti perché il dialogo non è solo verbale e, per altro verso, chiede coerenza tra il dire e il fare. Già il vivere, l’ascoltare, il parlare e il cercare sono delle operazioni, ma qui il carattere operazionale è da vedere in riferimento a un coinvolgimento impegnativo su un piano non solo mentale, ma anche affettivo e sociale. Ecco il carattere di testimonianza che il dialogo comporta, e che coinvolge la persona nella sua totalità. Quando il dialogo non ha questo carattere esperienziale, è solo apparentemente dialogo, perché esso non può prescindere dalla vita e dalla storia, altrimenti è solo un pour parler, o, tutt’al più, uno strumento di tipo oratorio: più avvincente che convincente.

Il primo di questi quattro caratteri merita maggiore attenzione perché costituisce la condizione o il presupposto del dialogo, e perché l’ascolto dialogico è qualcosa di più che non il sentire e l’udire; ascoltare significa voler sentire, voler udire, si tratta cioè di un ascolto attivo, in quanto è un udire con attenzione che si articola, in uno stare in ascolto, in un tendere a sentire, un prestare orecchio. Ecco perché l’ascolto dialogico è insieme accettazione e accoglimento: è accettazione dell’altro per quello che è, e non per quello che vorremmo che fosse; è accettazione dell’altro che comporta immedesimazione nell’altro, per cui richiede empatia; ed è anche accoglienza nel senso di disponibilità all’altro: a capirlo, a starlo a sentire, per cui si ascolta quello che dice per comprenderlo, dove la comprensione non è di tipo concettuale, ma esistenziale.

Per concludere si potrebbe aggiungere che l’esercizio dell’ascolto dialogico è finalizzato per un verso alla rimozione dei pregiudizi e per altro verso alla promozione della comprensione. Per richiamare l’insegnamento di un classico come Plutarco di Cheronèa, potremmo dire che l’altro c’insegna ad ascoltare e ad ascoltarci, favorendo il conosci te stesso. Si tratta allora di concepire l’ascolto come un’arte, come un’arte è quella della parola; ma, se così è, occorre impararla, questa arte, occorre esercitarsi perché ci divenga abituale la capacità di ascoltare correttamente e di parlare correttamente.

È da aggiungere che bisogna essere all’ascolto soprattutto nei confronti dei senza voce, di coloro che parlano nel silenzio: ad essi occorre dare la parola; con essi occorre instaurare un dialogo che deve coinvolgere prima di tutto su un piano esistenziale, cioè di comunione a livello di persona nella sua interezza.

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